Il perdono per Jack Johnson tarda ancora, complice Obama.
Sembrava il più classico ed il più ovvio dei “perdoni presidenziali”, invece si sta trasformando in una lunga attesa in grado di aprire un campo di ipotesi non proprio positive per la figura di Barack Obama, primo Presidente, non bianco, degli Stati Uniti. Il tema che vede il continuo silenzio della Casa Bianca, è relativo alla riabilitazione postuma di Jack Johnson, primo pugile nero campione mondiale dei massimi, vittima del pregiudizio razziale.
Un po’ di storia.
Spavaldo nello stile di vita, Johnson, non nascose mai la sua passione per le donne bianche, molte di loro prostitute, tre delle quali prese anche in moglie. Proprio una delle sue avventure giunse a tradirlo, testimoniando la loro fuga d’amore agli agenti dell’Fbi che tentavano di incastrare il pugile, per ben altri motivi. Venne così condannato nel 1913, ai sensi del Mann Act, la legge che proibiva di trasportare una donna da uno Stato all’altro per “scopi immorali”. In realtà, come detto, Johnson fu perseguitato per aver sconfitto Jeffries e sfidato ben altra morale dell’epoca, quella razziale. Il pugile riuscì ad evitare l’arresto, fuggendo in Gran Bretagna. Andò poi a combattere e vincere a Cuba nel 1915. Ritornò negli Stati Uniti il 20 luglio 1920 e venne immediatamente arrestato. Imprigionato a Leavenworth (Kansas), restò nel penitenziario per un anno e, proprio a fine giugno 1921, quindi novanta anni fa, risale la sua circostanziata domanda di grazia. Dopo la scarcerazione, privato del titolo, salì sul ring solo per delle esibizioni. Morì in un incidente stradale nel 1946.
Di questa autentica leggenda della boxe, immortalata nella stessa cinematografia in un film del 1970, “The Great White Hope” con James Earl Jones e Jane Alexander, restano indelebili diversi momenti. Due, sono pagine obbligate del pugilato. La prima si consumò il 26 dicembre 1908, quando Jack Johnson conquistò in Australia il titolo dei pesi massimi, contro il canadese Tommy Burns. Un match memorabile, interrotto dalla polizia alla 14a ripresa e uno shock per il mondo della boxe, al punto che le cineprese che riprendevano il combattimento, vennero spente prima del ko finale, per non far vedere l’umiliazione di un bianco al tappeto sotto i colpi di un nero. Fu un affronto per una disciplina al tempo considerata privilegio dei bianchi. Di qui, poi, il “peccato più grande” di Johnson, quando il 4 luglio 1910, umiliò sul ring James Jeffries, la cosiddetta “Grande speranza bianca”, che dichiarò di aver accettato il combattimento, dopo averlo accuratamente evitato per anni, “con il solo scopo di dimostrare che un bianco è meglio di un negro”. L’incontro cambiò la storia della boxe americana, da quel momento dominata soprattutto dai neri e per sempre angosciata dalla ricerca, appunto, della “Great White Hope”.(Nella foto di Getty Johnson con la moglie)
L’attualità di quegli echi di storia della boxe e delle vicende che legarono fino a deviare la vita del protagonista Johnson, si deve al Senatore dell’Arizona John McCain (Candidato alla Presidenza degli Stati Uniti nel 2008) e al Congressista di New York, Peter King, entrambi repubblicani e grandi appassionati di boxe. I due, a cento anni di distanza dal titolo mondiale conquistato da Johnson, hanno svolto tutti i passi affinché fosse riabilitata la memoria e la figura del grande pugile di colore. Fino alla lettera di specifica richiesta al Presidente USA Barack Obama.
“Sono sicuro che il presidente sia l’ultima persona che dovrò convincere” – affermò nel 2009 McCain dopo esser riuscito a far approvare a Senato e Camera, una risoluzione bipartisan, che invitava il presidente a “eliminare dagli annali della giustizia penale americana un abuso dell’autorità inquirente, motivato da ragioni razziali”.